giovedì 26 novembre 2015

Di broncopolmoniti e romanzi in uscita

Un paio di settimane fa avevo “annunciato” che il mio nuovo romanzo, ispirato alla piccola esperienza di “PhD, Pregnant”, sarebbe uscito all’inizio di Dicembre.
La sfiga mi ha messa a letto con una mezza broncopolmonite che mi impedisce di uscire a fare le foto necessarie per la copertina. 

Poiché non voglio fare le cose male per farle in fretta ho pensato di guarire, fare le foto, e poi approfittare delle vacanze di Natale per lavorare con calma ad una bella copertina per “Mi sei capitata per caso”.
Sarà questo il titolo.

Come avevo anticipato, sarà ispirato a “PhD, Pregnant”, di cui ritroverete alcuni dei brani più divertenti, ma la storia è completamente nuova: nuovi i protagonisti e i personaggi secondari, nuovo il finale, nuovo il messaggio, l’idea che mi ha ispirato a raccontare la storia in questo modo.


Nel prossimo mese vi lascerò delle anticipazioni e dei brani musicali che mi hanno ispirata durante la scrittura, e voglio iniziare con un piccolo estratto del libro e una canzone che raccontano la mia Bologna, la città in cui il libro è ambientato. Avrei voglia di canticchiare questa canzone, ma al momento ne verrebbe fuori solo un rantolo tossicchiante perciò no, meglio di no.



"Banchi di nebbia apparivano uno ad uno, all’improvviso, e piccoli lampioni segnavano gli ingressi di giardini da romanzo che mi avevano fatta sognare da ragazzina. Gettai un’occhiata affettuosa e malinconica alla Basilica di San Luca, che risplendeva pacifica sulla cima di un colle alla mia sinistra.
Nonostante avessi sempre vissuto in provincia, Bologna era la mia città da quando avevo quattordici anni. La maggior parte dei miei amici viveva ai piedi di quelle colline, eravamo cresciuti sotto quei portici medievali che rendevano la città romantica, in un modo unico e peculiare, soprattutto nei giorni di pioggia.
Nessuno si bagna a Bologna: ci sono i portici.
E puoi startene lì a pensare, aspettando che la pioggia passi e guardando un muro d’acqua che scende tra le colonne, insieme ad un’orda di studenti che, come te, in qualche momento della vita aveva subito il fascino di quel luogo in cui da centinaia di anni le persone si riunivano per imparare: la città dall’università più antica d’Europa.
L’ultimo banco di nebbia si dileguò nel momento in cui l’illuminazione dorata dei viali cominciò a rischiarare la notte d’inverno. Sbadigliando, svoltai verso la tangenziale e alzai il volume della radio per tenermi sveglia." 


lunedì 16 novembre 2015

Leggo libri per bambini

Ho voluto scrivere questo post per mettere subito in chiaro una cosa: leggo di tutto. Non mi vergogno di niente, neanche di aver letto 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire a suo tempo, che è qualcosa di impresentabile, ma ho letto anche quello.

Un’altra informazione utile su di me: non ho una preparazione umanistica o linguistica alle spalle. Non è una bella cosa: ho avuto pessimi insegnanti alle medie che non sopportavano la mia mania di leggere e scrivere (nei temi) quello che mi pareva e arrivarono addirittura a sconsigliarmi il liceo perché “non avevo la disciplina”. Ironia della sorte, è poi stato dimostrato che avevo abbastanza disciplina per portare avanti una preparazione agonistica da squadra nazionale e l’università, rimanendo in pari con gli esami, ma tant’è, ognuno ha diritto alle proprie convinzioni. Ho frequentato un istituto tecnico e oggi sono una ricercatrice in microbiologia molecolare, un mestiere che amo e di cui non mi pento. Ma amo anche i libri, il mio primo amore, quello che non è mai finito (mi dispiace, marito, sei arrivato dopo). E leggo ancora tantissimo, e quello che mi pare. Questo lo dico un po’ anche per giustificarmi del fatto che a volte sono un po’ ingenua, forse: non sono stata formata ad apprezzare qualcosa “perché è un classico”, “perché è un pilastro della letteratura” o “perché l’ha scritto Bulgakov” (NB: la letteratura russa, in linea di massima, mi piace poco). Un libro mi piace o non mi piace. Col tempo ho imparato, da autodidatta, ad apprezzare aspetti dello stile, del ritmo narrativo, o a distinguere le costruzioni, e ho imparato anche a sforzarmi di riconoscere un merito stilistico in un libro del quale non ho amato la trama o altri aspetti, ma ciò che mi guida, ora come allora è soprattutto l’istinto.
Passo da un harmony a Balzac senza battere ciglio, e a volte mi ritrovo a parlare con quest’ultimo per dirgli che se anche lui si fosse letto qualche Harmony magari i suoi libri sarebbero stati meno “pesanti”.

E mi sono letta tutti i libri di Percy Jackson. La prima e la seconda pentalogia. E anche quelli di Carter Kane. E anche quelli crossover tra Percy Jackson e Carter Kane (shippando spudoratamente Percy-Sadie, lo so, è una vergogna). E adesso mi sono letta anche Magnus Chase e gli dei di Asgard.
Devo vergognarmi, alla mia veneranda età?
Non rispondetemi, tanto non me ne frega niente.
Per scandalizzarvi del tutto potrei anche dirvi che su Percy e Annabeth ci ho scritto pure una fanfiction, prima che uscisse Blood of Olympus. L’ho scritta in inglese però, ero in incognito. In effetti un pochino, forse, mi vergognavo.

Veniamo al punto: qualunque sia l’età scritta sulla vostra carta di identità, leggete i libri di Rick Riordan. Leggete Percy Jackson. E vi spiego il perché.

Beh, per prima cosa, anche se ci vuole poco, sono meglio dei film. Lo so, si dice sempre così, ma questa volta bisogna dire proprio che i film erano sbagliati dall’inizio alla fine, dalla scelta degli attori (il tizio di Grey’s Anatomy facevo Poseidone, e direi che abbiamo detto tutto) alla regia, all’ambientazione… tutto. Scordatevi i film.

Mi sono sentita dire che Percy è una brutta copia di Harry Potter. Ok, non so quali Harry Potter abbiate letto voi, ma forse non sono gli stessi che ho letto io. Chiariamo una cosa: io amo Harry Potter e tutta la combriccola ALLA FOLLIA, ma non è che adesso ogni protagonista teenager che ha qualcosa di “magico” dev’essere una copia di Harry Potter. Ci sono paralleli, come ce ne sono tra Hunger Games e tanti altri libri distopici, e tra mille altri libri che sono diventati famosi pur riprendendo temi già visti, perché… chissà perché, forse perché riuscivano a veicolare il messaggio in modo da arrivare in modo diverso al cuore della gente. Non amo fare confronti spiccioli tra le due saghe, sarebbe come confrontare l’amore che si prova per due familiari, per due amici molto cari. Non posso mettere la saga di Rick Riordan allo stesso livello di quella della Rowling, per il semplice fatto che Harry Potter mi ha cresciuta, sul serio, mentre ho scoperto Percy Jackson in un momento di noia durante la seconda maternità, quando ormai erano usciti sette o otto dei dieci libri totali. L’esperienza che ho avuto con le due saghe è diversa, ma mi sono affezionata a Percy nello stesso, affettuoso e delirante, modo in cui mi sono affezionata a Harry. Ecco, l’ho ammesso. Non amo fare confronti spiccioli, ma cercherò di farne di “intelligenti”, perché mi servono per spiegarvi il mio punto di vista su questi libri.

I primi cinque libri (la serie Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo) sono decisamente da bambini. Non ho intenzione di negarlo. E allora? Harry Potter e la Pietra Filosofale non lo è? Leggo libri per bambini, per ragazzini, per adolescenti… io sono una che quando è in crisi affettiva va a rileggersi “Mel” dei vecchi Gaia Junior! In questi libri Riordan ha uno stile un infantile, è vero, in certi momenti ho anche pensato che con materia prima del genere (una figlia di Atena e un figlio del dio del mare) poteva fare di meglio, sforzarsi di dare loro una verve un po’ superiore a quella di un carciofino. Poi però mi sono resa conto che stavamo parlando di ragazzini di dodici o tredici anni in media, e mi sono ricordata che i ragazzini a quell’età, anche se si credono uomini duri, spesso HANNO la verve di un carciofino, se visti con gli occhi di un trentenne… e tutto è tornato magicamente al suo posto. Andava bene così. Il problema è, forse, che siamo abituate a storie adolescenziali in cui i protagonisti sembrano avere venticinque anni invece di quindici, e quando leggiamo qualcosa in cui un tredicenne si comporta da tredicenne un po’ superficiale, imbarazzato con le ragazze, relativamente imbecille (quale è, nel 90% dei casi) ci sembra quasi strano.

Nella seconda serie (Eroi dell’Olimpo) Riordan, secondo me, fa un salto di qualità: l’intreccio è più imprevedibile, i personaggi più divertenti, un po’ perché sono cresciuti e un po’ perché forse l’autore li gestisce meglio, e le relazioni tra personaggi più avvincenti. Se con la prima serie mi divertivo semplicemente a leggere, qui ho iniziato spudoratamente a fangirlare. Molte di noi libro-compulsive si riconosceranno in Annabeth, così come si sono riconosciute in Hermione… ed eccolo qui! direte voi, un altro parallelo con Harry Potter, l’amica sapientona del protagonista, che ormai quasi quasi è un cliché. No, la somiglianza tra le due finisce lì, nell’intelligenza e nell’amore per i libri. Trascorsi diversi, temperamento diverso, sensibilità diversa, fragilità diversa, diverso rapporto con il protagonista, con il quale la tensione sentimentale si coglie da subito, dal primo libro della prima serie. Vi lascio uno spoiler, che tanto spoiler non è se non vivete fuori dal mondo: Annabeth non sarà impacciata quando sarà il momento di dare una svegliata a Percy, non terrà per sé i propri sentimenti, non aspetterà il mezzo minuto prima dell’ultima battaglia per salvare il mondo. E Percy… beh, vi sfido a non farvi incantare da Percy, da come cresce, da cosa diventa, da cosa sceglie di sacrificare, da quanto sceglie di restare infantile e ridicolo (nel senso di divertente) in piccoli aspetti del suo carattere per bilanciare quelli nei quali ha dovuto crescere troppo in fretta. Ma adorerete anche Leo e il suo sarcasmo, adorerete Jason e Piper e il rapporto di quest’ultima con Annabeth, adorerete Hazel e il suo scurrile cavallo, e adorerete Nico, anche se vi ostinerete a non farlo fino alla fine.

Non sono un’esperta di letteratura greca e romana, perciò faccio fatica a valutare l’effettiva accuratezza con cui l’autore ha trattato la mitologia, ma conosco i miti greci e non ho mai percepito “colossali americanate” (come il modo barbaro in cui gli americani hanno riproposto l’Iliade nel film Troy, per intenderci) leggendo i libri. L’ambientazione (vale a dire il manipolo di dei, semidei e altri esseri che gravitano attorno ai protagonisti) è coinvolgente, “storicamente” sensata, ma modernizzata in modo molto ironico. Ci sono aspetti dello stile di Rick Riordan che mi piacciono davvero molto: la leggerezza è uno di questi, non senti forzature, né nelle descrizioni, che sono sempre brevi ed efficaci, né nei dialoghi che ho trovato anche molto realistici nei toni, considerando l’età dei protagonisti.  Un altro aspetto che amo di questo autore è il modo che ha di prendersi in giro da solo mentre scrive, e prendere in giro i propri personaggi anche tra una saga e l’altra, in modo più o meno velato, offrendo una connessione tra i vari libri che esula dalla trama, che fa scoppiare a ridere il lettore appassionato senza dover scrivere una battuta esilarante.

Fa ridere. Un sacco. Ma non per questo è meno “educativo” della più seria, più toccante, più emotivamente coinvolgente J.K Rowling. I valori che Percy, Annabeth, Jason, Piper e tutta la combriccola perseguono e incarnano sono i più puri che si possano trovare: il coraggio, la responsabilità del potere, la necessità di unire la saggezza all’intelligenza, la forza dei sentimenti puri, lo spirito di squadra… tutto questo è sbandierato in modo semplice, diretto, ma allo stesso tempo in modo poco drammatico. 
Non ho mai pianto leggendo i libri di Rick Riordan: non so se sia un bene o un male. 
Di certo per me, che leggo tanti libri e che posso trovare altrove il coinvolgimento emotivo che magari non ho trovato qui, è stata una bella novità, un modo spensierato, divertente e affettivamente stimolante di trascorrere le settimane successive al parto, quando di emotività in effetti sei un po’ rigurgitante. Non escludo che il periodo della vita in cui ho fatto questa esperienza possa aver influenzato la mia percezione dell’esperienza stessa, in effetti, ma il mio apprezzamento non è sfumato in seguito. Non ho approfittato di una distrazione poi subito dimenticata: ho accolto nella mia vita un nuovo amico, e chissà, magari dopo questa recensione qualcun altro avrà voglia di aprirgli la porta e farsi due risate insieme a lui.




Perché ho scritto questo post adesso, visto che Blood of Olympus, l’ultimo libro della seconda serie, è uscito ormai da un anno? Beh, primo perché mi sono decisa ad aprire il blog adesso, quindi prima non lo potevo fare. Secondo perché da pochissimo è invece uscito il primo libro di una nuova saga: Magnus Chase e gli dei di Asgard. Volevo proprio vedere come se la sarebbe cavata con un Olimpo diverso e per ora non sembra male. E si, Magnus è il cugino di Annabeth Chase. In quella famiglia c’hanno tutte le “fortune”. 

sabato 7 novembre 2015

Glitch

Ok, siete pronti con gli stuzzichini? Questa è la vera inaugurazione e stappiamo lo champagne parlando di Glitch, l’ultima fatica di Mirya, disponibile qui.  E lasciatemi dire che è uno champagne di eccellente qualità.

Incominciamo però con un’ammissione: fin da quando ho saputo che il titolo del libro sarebbe stato “Glitch” ho avuto in mente LEI:


La conoscete? È Vanellope, del film “Ralph Spaccatutto”, quella che dice “non sono un glitch, sono solo un po’ pixellessica!”. Ecco. Perciò Mirya, con me avresti anche potuto risparmiarti di descrivere Leanne, tanto io vedrò sempre e comunque solo lei, con caramelline in testa e tutto il resto. Ammetto che se tento di immaginare poi lei con Caleb Webster la cosa si fa un pelino destabilizzante, ma lasciamo perdere.
Disfunzione Disneyana a parte, non so bene come iniziare una recensione per questo libro, sono terrorizzata dall'idea di lasciarmi scappare  qualche spoiler, visto che il libro è uscito da pochi giorni appena.

Dunque, sono già uscite recensioni su Amazon che rimarcano il fatto che questa storia era una fanfiction. Ma no?!? Davvero?!? Sono giusto giusto mesi che Mirya lo dice in tutte le salse. 
Ho già avuto discussioni in passato, anche con Mirya, relativamente ai libri che escono come originali mentre in realtà erano fanfiction a cui sono stati semplicemente cambiati i nomi dei protagonisti e dei luoghi. 50 Sfumature di Color-Cacca-Di-Gatto, per intenderci. Più volte, con diverse persone, ho rimarcato il fatto che quello che mi infastidiva (oltre alla bruttezza di quel libro) non era tanto che fossero fanfiction, quanto l’inganno: la fanfiction, anche una scritta meravigliosamente, non sarà mai un romanzo. La fanfiction ha un modo di scrivere diverso, un ritmo narrativo fatto per essere letto un capitolo alla settimana, uno stile che rispecchia questa caratteristica. Non puoi prendere una fanfiction, così com’è, e farne un libro, perché si nota. E infatti Mirya NON l’ha fatto. Il prodotto iniziale (fanfiction) e il prodotto finale (libro) sono due cose diverse, la fanfiction originale è stata revisionata e cambiata, non solo nei nomi e nei luoghi, ma anche in dettagli dello stile e del ritmo, con un’accuratezza che è tipica di Mirya e che ammiro moltissimo in lei. C’è dietro un grande e bellissimo lavoro. E c'è un mondo interamente nuovo da scoprire.

Leggere Glitch sapendo che era tratta da Succo di Zucca mi ha fatto sentire come quando incontri dopo anni un vecchio amico, che non senti da tempo, e chiacchierando ti accorgi piacevolmente che è cresciuto, è cambiato ed è diventato più intelligente, una persona migliore. Mi sono immersa in questo libro, interrompendo ciò che stavo leggendo, perdendo ore di sonno per il desiderio di finirlo e sono incredibilmente felice di averlo fatto.

Ho affrontato Glitch aspettandomi un bel libro di fantascienza, e quello che ho avuto è stato un GRAN bel libro di fantascienza, con una grande storia d’amore e di crescita, e con uno stile impeccabile, come quello a cui Mirya ci ha abituati, ma più cupo e più toccante sul piano emotivo. Impeccabile è anche l’ambientazione, il mondo degli Alter, e la logica di progresso scientifico-tecnologico che c’è dietro alla costruzione di questo mondo futuristico, che non è una distopia nell’accezione rigorosa del termine, ma che ricorda il genere distopico per i toni che lo caratterizzano.

Leggo sia fantasy che fantascienza e ammiro aspetti diversi in ognuno di questi generi e in ogni sottogenere che include. Nella fantascienza ambientata “qui ma nel futuro”, come Glitch, amo vedere una coerenza, una logica che  giustifica la presenza di quegli elementi che nella nostra realtà non esistono. Nella fantascienza non c’è magia, ogni elemento irreale deve essere giustificato da un progresso scientifico-tecnologico che, pur non essendo possibile “qui e adesso” deve essere in qualche modo plausibile, o almeno immaginabile, e giustificato. Ad esempio, la robotica dei libri di Asimov è perfettamente giustificabile, è un futuro che non ci sembrava poi così impossibile. Il mondo creato da Mirya è forse più visionario dal punto di vista tecnologico, ma assolutamente plausibile sul piano concettuale: SIAMO sempre connessi, ci basta non avere accesso a Internet per qualche giorno e ci sentiamo un po’ in crisi (chi più chi meno), con più o meno consapevolezza viviamo davvero una doppia vita. C’è una parte di noi che vive una vita diversa, più o meno attiva, in un mondo virtuale. Non è affatto impensabile ciò che Mirya ha immaginato ed ha una logica e sufficienti dettagli per immedesimarsi in fretta e completamente, per vivere fin dal primo capitolo in un Mondo Connesso.

C’è solo una piccola eccezione a questa perfezione, ma è molto probabile che il mio rilevarla sia dovuto alla disfunzione provocata dalla mia formazione biotecnologica, perché riguarda il modo in cui Mirya ha affrontato il tema delle mutazioni genetiche nei Wired Beta. Mi è sembrato di cogliere una superficialità nel trattare l’argomento, come se utilizzasse in parte quegli stereotipi che fanno dire alla gente “ecco vedi cosa succede a smanettare col DNA? Ne escono dei mostri!”. Ridurre l’ingegneria genetica a un terzo occhio che ti spunta dove non batte il sole come effetto collaterale mi ha lasciato una punta di amaro, come se avessi colto una piccola occasione perduta per rendere il libro perfetto anche sotto questo punto di vista. La narcolessia è più credibile come effetto collaterale: in fondo su alcuni modelli animali è stata collegata ad una mutazione nel gene di un neurotrasmettitore, un gene che in effetti potrebbe essere tra quelli su cui l’ingegneria genetica ha operato per selezionare migliori individui Wired, è più immaginabile. Disturbi del metabolismo energetico, anche. Ma in certi individui questo aspetto diventa caricaturale, come succede per il serraglio OGM (che mi ha fatto morire dal ridere), in un modo che, per il mio gusto, non è del tutto piacevole. Ripeto, è possibile che questa sia una mia percezione, magari sono troppo sensibile sull’argomento.

In conclusione non posso che affermare che Mirya ci ha fatto un altro, meraviglioso regalo, e che non vedo l’ora di leggere la continuazione di questa storia e di rientrare in questo mondo. E vedere chi si divertirà ad ammazzare. 
Grazie cara, leggerti è sempre un dono e un onore. 

Mi resta soltanto un dubbio: ma quando i personaggi fanno quella cosa delle api, dei fiori e delle cicogne, lo fanno in contemporanea anche gli Alter? Oppure sono solo dei gran guardoni? 






lunedì 2 novembre 2015

P380: evacuare la zona.

C’era chi mi diceva “siediti e aspetta che ti passi”, quando manifestavo il mio blando interesse nella possibilità di tenere un blog. Per diversi anni ha funzionato.

Poi c’era chi mi diceva “fallo”, forse nel senso di imperativo del verbo fare, o forse nel senso di “scorrettezza passibile di espulsione”, chissà. In effetti, l’idea di avere uno spazio in cui imporre ad altri il turpiloquio che spesso ha luogo nel mio cervello, nonché i deleteri momenti di masturbazione mentale, potrebbe considerarsi un comportamento poco sportivo: avere la mia capacità innata di essere una scocciatura è un po’ come barare.

Ma tant’è, eccomi qui, con un blog dal titolo che è tutto un programma e un’evocativa frase di prudenza, di quelle che si trovano sui flaconi delle sostanze chimiche più pericolose, come titolo del primo post.
Inutile dirlo, spero che NON seguirete il consiglio. 

Mi sono finalmente decisa perché mi capita spesso di avere qualcosa da dire, di avere voglia di comunicare, e di avere voglia di farlo in un modo un po’ più immediato di quanto non sia aprire una pagina di word e cominciare a scrivere una storia che chissà se mai avrà una fine, chissà se qualcuno leggerà mai, e chissà quando. La voglia di dire qualcosa va di pari passo con la voglia di dirlo a qualcuno (possibilmente qualcuno che non sia più interessato al vestito di Elsa che a me o che non mi risponda con un emblematico “brum brum?”, ma questo è un discorso diverso) perciò spero che col tempo ci sia qualcuno che si diverte a venire a chiacchierare nel mio… stavo per scrivere “salotto”, ma poi mi sono resa conto che mi veniva subito in mente un tavolino con la tovaglia di pizzo, un divanetto ordinato e un servizio da tè, e chi mi conosce sa che queste cose con me c’entrano come i cavoli a merenda. O la birra alle sette di mattina (se non hai cittadinanza germanica). O una bottiglia di vino ad una festa di bambini, che ci vorrebbe sempre ma non c’è mai. Perciò facciamo che questo non è un salotto, ma una veranda, o un gazebo in giardino, magari con quelle sedie a sdraio un po’ scolorite e sporche di qualche cacca di piccione. E facciamo che è una bella sera d’estate, perché a me piace stare a piedi nudi sul prato, e che ci sono birre fresche per tutti. E poiché siamo in un giardino, siamo anche liberi di ascoltare musica a tutto volume, ridere forte, strillare se ci va. E dire parolacce, tanto facciamo che è tardi e bimbi sono a letto, ecco.
(Lo so che non è fine, ma io di parolacce ne dico tante. Forse perché mi trattengo quando ci sono i miei figli e prima o poi devono uscire. )
Comunque, facciamo che non abbiamo vicini rompipalle e che questo è un posto in cui possiamo esprimerci. Facciamo però anche un’altra cosa: non facciamo i vicini rompipalle tra noi. Altrimenti poi volano le bottiglie e se ci sono i vetri rotti sul prato a piedi nudi non ci si può più stare.


A presto, allora. L’ultimo che arriva si becca l’analcolico.