venerdì 26 agosto 2016

Il corpo della vergogna

NOTA: Scrivo questo post un po’ in ritardo perché non riuscivo a decidermi, mi pareva troppo personale. Poi ho pensato che magari condividere un’esperienza può aiutare anche altre persone che si sono trovate nella stessa situazione. Perciò ecco qui, la mia vergogna.



Puntuale come il mal di denti durante le vacanze, arrivano gli imbecilli estivi. Come il tormentone dell’estate. Quasi quasi preferivo Luca Carboni ai tempi d’oro.

Sono andata dalla fioraia a comprare un mazzo di fiori per il compleanno della nonna e sì, ammetto che non avevo scelto l’abbigliamento con cura, forse avevo una canotta aderente, forse era l’unica pulita (ho due figli, lavoro a tempo pieno: sono sempre indietro con le lavatrici, sono una di quelle che se proprio butta male si ferma in merceria di ritorno dal lavoro e compra mutande per tutta la famiglia per guadagnare qualche giorno). Ero con mia figlia, quella più grande, di sei anni: questo non sarebbe rilevante, se non fosse per il fatto che non è affatto deficiente, capisce quanto, appunto, una bambina di sei anni. Ma veniamo al dunque.

La fioraia guarda la mia figura (sto cercando di non essere cruda, sto cercando una scusante, ma francamente non ne trovo: voi guardate così ossessivamente il punto vita delle altre persone? Solo a me non frega un fico secco di quale buco della cintura usano gli altri?) e chiede A MIA FIGLIA quando nascerà il fratellino.

Inutile dire che non c’è nessun fratellino, ci sono solo i residui di due tagli cesarei in 4 anni e gli effetti che l’avere poco tempo per fare esercizio fisico ha sulle ormai defunte addominali di una ex atleta.
Mia figlia mi guarda stranita come a dire “che cazzo vuole questa da me?”. Lei non dice “cazzo”, ovviamente. Ma se fosse abbastanza grande per poter dire parolacce in mia presenza sono convinta che l’avrebbe detto.
E a me è toccato ingoiare il rospo, rassicurare mia figlia con un sorriso, SORRIDERE alla fioraia e spiegare che le mie addominali hanno solo risentito delle esperienze pregresse.

Quest’anno è stato particolarmente fastidioso perché è stata coinvolta mia figlia, ma questa scena è capitata già tre o quattro volte l’estate scorsa e, ora, una volta anche quest’anno. Sono dimagrita un po’, rispetto a un anno fa, quando dal secondo cesareo era passato soltanto un anno, ma evidentemente non abbastanza.

Sono tornata a casa, ho lasciato i bimbi con la nonna per un po’ e mio marito mi ha trovata in lacrime sul divano.
Mi vuole bene, mi conosce, sa che sono una ex pattinatrice, che non riuscirò mai a staccarmi completamente dall’apparenza del mio corpo perché è ciò che, insieme alle mie capacità di atleta, ha determinato la mia riuscita (o non riuscita) come danzatrice. Ci sono cose che il tuo cervello assimila in giovane età e poi fatica a lasciare andare. Tuttavia, pur conoscendomi così bene, il sunto della sua reazione è stato “hai due lauree, un dottorato, sei una scienziata che sa parlare a congressi internazionali davanti a centinaia di persone e ti mette in crisi una cretinata che ti dice una fioraia, probabilmente senza connettere il cervello alla bocca?”
La risposta è sì. Mi mette in crisi, mi ferisce, non posso farci nulla. Sono abbastanza adulta, matura e intelligente per sorridere, stringere i denti, ingoiare il vaffanculo e, in definitiva, dare un esempio che considero intelligente, adulto e maturo a mia figlia. Ma vi posso assicurare una cosa: la ragazzina che l’allenatore teneva a stecchetto, quella che provava davanti a quello specchio impietoso per essere sicura che i movimenti non fossero soltanto tecnicamente impeccabili ma anche belli da vedere, beh non è mai cresciuta del tutto. Quella ragazzina frigge di rabbia infantile, irrazionale e impotente nel vedere quel fisico che l’allenamento, la dieta e la cura limavano ogni giorno perché tendesse il più possibile a ciò che i canoni della situazione ritenevano perfetto, trasformarsi seguendo il corso della vita che ho scelto. Quella ragazzina piange di stizza vedendosi soppesata sulla base del proprio fisico, ancora, quando non può farci nulla.
Non posso farci nulla perché il mio corpo è lo specchio di ciò che ho scelto per la mia vita, di ciò che ogni giorno scelgo dando la precedenza alla mia famiglia, al trascorrere tempo con i miei figli invece di iscrivermi a un corso di GAG in palestra, perché fare la mamma ed essere lontana da casa per lavoro dalle otto di mattina alle sei di sera (un lavoro che amo, a cui non ho rinunciato anche se la pendolarità è pesante) significa voler trascorrere ogni singola mezz’ora disponibile con la mia famiglia, soprattutto ora, che le pesti sono piccole. Non mi metterò a discutere con chi sostiene che il tempo si trova e che è una questione di priorità, perché è vero: è una questione di priorità, che portano a scelte, che portano a relegare al “quando posso” alcune cose che non hanno la priorità rispetto ad altre.

Questo qui sotto è ciò che quella ragazzina un po’ superficiale, che ha passato l’adolescenza ad allenarsi con impegno, pensa ancora di dover essere, ciò che questi commenti idiota le ricordano di non essere più (la foto è orribile, ho fotografato con il cellulare una foto appesa in casa dei miei, ma non è rilevante).



10 anni e 2 figli fa: pesavo 7-8 chili in meno di ora, mi allenavo due o tre ore al giorno almeno. Non metterò una foto di ciò che sono ora, perché l’adulta che sono diventata si sta impegnando tanto per spiegare a quella ragazzina che NON è importante. Sono ancora così: una taglia in più, i fianchi un po’ più rotondi e un punto vita non invidiabile, ma non sono diventata un’altra. Sono la versione adulta di quella danzatrice che sta cercando di spiegare a quella superficiale ragazzina che il punto vita non è rilevante quanto la vita che lo ha formato: un tempo quel punto vita sottile e sodo come il marmo era frutto di ore sulla pista, di passione per uno sport bellissimo, di sudore e fatica mai rimpianti, ora questo punto vita pieno di smagliature e di addominali che proprio non ne vogliono sapere di rassodarsi è frutto di una scelta di vita che rifarei miliardi di volte, di un lavoro che amo e che ho scelto di continuare a fare a tempo pieno, di bambini – che sono bambini solo ora, che presto diventeranno grandi e non saranno meno amati, ma saranno diversi - che richiedono un tempo ugualmente mai rimpianto.

Questa è la mia vergogna: non la taglia 44, la pancetta che sporge, o il culo meno sodo, ma la mia incapacità di spiegare a quella ragazzina che il tempo è passato, che deve guardare oltre, guardare altro. Così come devono guardare altro tante persone al mondo che, dando importanza alla forma fisica delle persone che hanno davanti e facendo commenti inappropriati, feriscono la ragazzina (o il ragazzino) che non vedono (che nessuno vede) e poi spediscono l’adulto di cui hanno visto solo un dettaglio irrilevante a piangere sul divano.

Diventare adulti, spesso, passa anche dall’ammissione delle proprie debolezze, perciò eccomi qui: sono la ragazzina che non è mai cresciuta e che ha pianto tanto, ma sono anche l’adulta che adesso trova le parole, i discorsi, la coerenza mentale che la ragazzina non aveva, per cercare di spiegare come, quanto e perché fa (ancora) così male. 

martedì 2 agosto 2016

Di treni, di libri e del perchè sono sparita.

Ho avuto momenti brutti questa primavera. Lavorativamente. Emotivamente. Personalmente. Sono stata molto stanca, molto stressata, molto preoccupata. Ci sono state attorno a me persone che non stavano bene. Ci sono stati bambini che avevano bisogno di mille cure sfinenti, mille aerosol, mille colliri, mille sciroppi, mille attenzioni. Mille sorrisi che in certi momenti era davvero fatica concedere, ma che poi era difficile frenare. Mille abbracci che spesso rappresentavano uno dei pochi momenti luminosi della giornata. Tante serate sfinite, a dormire sul divano con la TV accesa e la testa appoggiata su una spalla che, per fortuna, non si è mai scansata.
Ci sono stati momenti in cui l’ironia e il sarcasmo cattivo erano l’unico modo di ridere.
Sono momenti. La vita è fatta di questi e di altri, e mentre aspetti gli altri cerchi di tenere insieme i pezzi durante questi.
Durante questi momenti leggere è sempre stato il mio porto sicuro. Leggo molto quando sono serena perché la mia mente si apre al nuovo con più facilità. Rileggo molto durante i momenti bui perché ci sono libri nella mia vita che rappresentano dei fari, delle sicurezze, delle funi a cui attaccarmi. Ma leggo, sempre e comunque.
Ci sono luoghi letterari – Armida, Castel Aldaran, Arilinn, Hogwarts, The Dreaming, la Vecchia Capitale, Terre D’Ange, il Distretto 12 – in cui mi sento al sicuro. Ci sono sensazioni che non ho mai provato nella vita – il freddo ventoso degli Hellers, la penombra del sole rosso sul lago di nebbia di Hali, la pressione dei nastri di un corsetto nero sotto un abito bianco, il vociare di Diagon Alley – che mi sono familiari come poco altro nella vita reale.



Leggo in treno, tantissimo, perché è una pausa che mi ricarica dopo l’uscita dal lavoro e prima di rientrare in casa, dove l’orda barbarica attende la propria dose di sorrisi, abbracci, attenzioni (e piatti in tavola e mutande pulite e pavimenti su cui camminare senza prendere il tetano, sì, anche quello). È una pausa dal mondo di cui sento fisicamente il bisogno. Venticinque minuti che sono miei e soltanto miei.
Penso che ci siano molte persone come me: le ho viste, con la coda dell’occhio, che non sollevano lo sguardo dal kindle o dal libro, o che guardano furtivi al di sopra di esso, sperando che nessuno con la voglia di chiacchierare si sieda vicino a loro. O che fanno finta di non sentire se qualcuno li saluta. Perché magari alla mattina abbiamo anche voglia di chiacchierare con chi prende il treno con noi, ma a volte abbiamo solo voglia di leggere, di non essere costretti ad ascoltare, di non essere per forza interessati. Abbiamo voglia di noi. E non è maleducazione, non è sociopatia: è solo voglia di silenzio, di mondi lontani o di storie vicine, di dialoghi divertenti o di descrizioni commoventi.
Perciò, pendolari e avventori dei mezzi pubblici, se vedete qualcuno leggere (o scrivere al computer) non pensate che lo stia facendo perché si annoia o perché non ha nessuno con cui chiacchierare. NON VUOLE nessuno con cui chiacchierare. Non vuole parlare, né con voi né con altri, non è un fatto personale. Ha voglia di rilassare il viso in espressioni che non siano quelle tirate di circostanza che a volte sei costretto ad assumere sul lavoro, ha voglia di rilassare la bocca perché magari ha parlato tutto il giorno, ha voglia di non dover avere un’opinione su qualcosa, di non doversi esprimere.
Mi sono fatta l’idea che per alcuni sia difficile da capire, forse ci sono persone che il silenzio proprio non lo sopportano, che non concepiscono avere vicino qualcuno e non chiacchierarci. (Poi magari sono le stesse persone che mentre ti parlano non riescono a non scorrere facebook sul cellulare, ma va bene anche quello.)
Vi facilito le cose:

Se sto leggendo, non parlarmi.

Se sto scrivendo al computer, non parlarmi.

Se ti rispondo distrattamente che il posto di fianco a me è libero e mi rimetto a leggere, non è un invito a chiacchierare, è solo una constatazione del fatto che lì non deve sedersi nessuno.

Se ti saluto è perché sono educata, non perché ho voglia di chiacchierare. 

Se ti sembra che non abbia voglia di ascoltarti non è una tua impressione: non ho voglia di ascoltarti.

Se chiudo il libro mentre mi parli (sempre perché sono educata) ma lascio il dito in mezzo  alle pagine non è perché mi sono dimenticata a casa un segnalibro: è un chiaro invito a smettere di parlare e lasciarmi tornare a leggere. (E sì, non uso segnalibri, lo ammetto, sono uno di quei mostri che piegano le orecchie delle pagine.)

Non chiedermi cosa leggo o cosa scrivo, più che altro perché poi mi chiederai automaticamente “ma è bello? Ma che genere è? Ma di cosa parla?” e, no, fidati, non sei pronto per avere questa conversazione con un vero lettore. Non in treno, alle sei di sera, con soli venti minuti a disposizione davanti. 

Non pensare che farmi i complimenti perché leggo in inglese sia un buon modo per attaccare bottone: non mi metterò a parlare in inglese per divertirti, non ti farò lezione privata e non ti spiegherò come ho imparato l’inglese. Studia, capra. Studia e leggi. 

Se mi accusi di asocialità perché ho sempre l’e-reader in mano e ti rispondo male (o volgarmente, dipende dai giorni), non lamentarti: … no, questa non te la spiego neanche. Fidati. 

Comprati un libro e mettiti a leggere. C’è una minima probabilità che poi tu miracolosamente afferri il senso dei nove punti esplicati sopra. Minima.