Sono a Quebec City in questi giorni, per un congresso; un
viaggio di lavoro, da sola, come mi capita di fare ogni tanto.
Questa mattina sono andata a fare colazione in un cafè (il
Cosmos Cafè, se mai vi capitasse di bazzicare questi luoghi oltre la Barriera
ve lo consiglio). Mi sono seduta ad un tavolino, il cameriere mi ha riempito la
tazza di caffè (e poi ha continuato a farlo per tutto il tempo in cui sono
stata lì, alla Gilmore Girls – adoro questa cosa che non è italiana per niente,
la amo alla follia: tu stai lì seduta e appeni posi la tazza te la riempiono.
Se lo facessero con l’alcol sarebbe un casino.) Comunque, dicevo, mi sono
seduta, in un tavolino illuminato dal sole che però faceva un effetto strano
grazie ai vetri colorati del locale, e ho ordinato una “sublime crepes”. Per
inciso, sul menu mi sono un attimo confusa perché tutto quello che aveva dentro
pezzi di frutta costava esattamente il doppio di tutto quello che aveva dentro
carne, formaggi e uova; poi mi sono ricordata che siamo oltre la Barriera e che
se vogliono mettere del melone su una crepes in ottobre, beh, mi pare il minimo
che gli costi quanto un rene. Vabbè. Il cameriere con un delizioso accento
francese ha detto “Sublime crepes? The same as you!” (Tesoro. Lo so che lo fai
per la mancia, ma lasciatelo dire, con me, alla mattina alle sette, con il jet
leg stampato in nero violaceo sotto gli occhi, you’re doing it right.)
Insomma, mentre aspettavo che mi portasse la crepes e bevevo
il mio caffè senza fondo ho tirato fuori l’e-reader e ho iniziato a leggere
(Empire of Storms della Maas), nella pace assoluta di un locale pieno di gente
sconosciuta. Ciliegina sulla torta, tutti parlavano francese e io non ne
capisco una parola.
Ero in pace, serena,
e mi godevo il momento. La pace era accompagnata però da un fondo di
solitudine. Non era amaro, non era angosciante, non era accompagnato dalla
paura, era solo… c’era. Tutto lì. E mentre leggevo, bevevo caffè e mangiavo una
crepes deliziosa imbevuta di sciroppo d’acero, ho capito che quel fondo di
solitudine era giusto e bello e corretto che ci fosse. Quell’accento di
solitudine è in realtà il mio tesoro più prezioso.
Amo viaggiare. Ho la fortuna di poterlo fare di tanto in
tanto per lavoro: sono una scienziata, vado a congressi, conferenze, meeting.
Viaggiare per lavoro significa quasi sempre viaggiare da soli, ma io ho anche
la fortuna di non averne paura: ho girato diverse città da sola, mi piace
perdermi, quasi di proposito, girando a caso finchè non è ora di tornare all’albergo
e allora tiro fuori la cartina e chiedo indicazioni e parlo con la gente.
Viaggiare da soli ha il suo fascino, ed è un fascino diverso da quello del viaggio
di coppia o di famiglia; non puoi condividere le impressioni, non puoi
commentare, ma hai più tempo per pensare a quello che vedi, e non devi rendere
conto a nessuno se a un certo punto vedi una panchina che è LA panchina
perfetta, e ti siedi e ti metti a leggere mezz’ora, semplicemente perché era la
cosa perfetta da fare in quel momento su quella panchina.
Dall’altra parte però, ho la fortuna di avere una famiglia che
amo con tutta me stessa e una casa, che è casa nel senso fisico ed emotivo del
termine, un luogo che abbiamo costruito, fisicamente ed emotivamente, per
essere una parte di noi, quella stabile e fissa, con tanti sacrifici e tanta
ostinazione. La mia casa è un luogo da cui non sento il bisogno di scappare
mai, il luogo a cui tornare, il luogo da cui andarsene è sempre dettato dal “voler
fare”, mai dal “voler scappare”.
Ecco, quel fondo dolce di solitudine che ho provato questa
mattina leggendo un libro da sola, che ho provato dopo camminando sulla
terrazza lungo il San Lorenzo, che provo nelle serate come questa, in hotel più
belli di quelli che io prenoterei mai per me stessa… quella solitudine è il simbolo di queste due fortune combinate, ed è
preziosa, proprio perché in realtà fortune non sono.
Ho lavorato e studiato, duramente, per diventare una
scienziata, per svolgere un lavoro che amo e che comporta anche il viaggiare.
Ho scelto un compagno con il quale immaginare una casa,
quella casa sia fisica che emotiva di cui parlavo prima, con dentro una
famiglia che non avrei mai voluto se non con lui, e proprio per questo ancora
più desiderata e amata, perché il completamento naturale di ciò che siamo
insieme. Ho scelto un compagno per il quale le mie competenze e il lavoro per
cui le uso non fossero un problema anche se questo mi porta a viaggiare,
conoscere persone, stare lontana da casa tutto il giorno e a volte anche per
più giorni: un compagno che, pur facendo un lavoro completamente diverso dal
mio, avesse per noi la stessa visione di casa, di realizzazione e di famiglia,
che mettesse al primo posto il “noi” ma sapesse che non vuol dire annullare l’“io”.
E no, non sopporto chi mi dice che sono fortunata ad avere un marito così: me
lo sono scelto. Non lo avrei sposato se non fosse stato così. Non ci avrei
fatto dei figli e adesso staremmo parlando di nulla se non fosse fatto così.
Ho scelto un compagno di cui fidarmi ciecamente perciò sì, c’è
sempre la preoccupazione quando me ne vado per qualche giorno, ma so che i
bimbi sono in ottime mani e quello che viene a mancare per qualche notte è
soltanto la metà di un “noi” che per un poco può funzionare bene comunque. C’è
la preoccupazione ma non il terrore, c’è la voglia di essere insieme ma non il
senso di inutilità se non lo si può essere per qualche giorno, c'è la voglia di condividere ma non l'assenza di piacere nel vedere comunque cose nuove, c'è la voglia di parlare ma anche la gioia di sapere di poterlo raccontare, c’è la voglia di
abbracciare ma la gioia di sapere di avere un luogo in cui quegli abbracci ci
sono tutti i giorni, un luogo che io, anche con il mio lavoro, ho contribuito a
creare. Perché la casa, il giardino, la famiglia sono un lusso, per il quale
bisogna essere grati, sì, ma per il quale non bastano i buoni propositi e una
vita sana, come la Lorenzin ci vuole far credere. Ho avuto la mia prima figlia
a 26 anni, stavo ancora finendo il dottorato: l’ho potuto fare perché mio
marito l’università non l’aveva fatta e stava già lavorando da diversi anni, anche
lui fortunatamente facendo un lavoro che ama, per cui un tetto sopra la testa l’abbiamo
avuto. Abbiamo la fortuna, oggi, di vivere in campagna, con un grande giardino
e l’orto e gli animali, che è una vita sana per noi e per i bambini e una
miniera d’oro per la banca a cui pagheremo il mutuo tutti i mesi fino all’erasmus
dei nostri figli.
Perciò, in conclusione, come ama dire mia mamma Riccioli D’oro
che adora il cartone di Mulan, “sono un insetto fortunato”, una formichina per
la precisione, che ha lavorato un bel po’ per potersi ritenere fortunata, e la
vera fortuna che ha è proprio quella di amare il proprio lavoro.
Cara ministra, le madri felici e serene devono essere prima di
tutto donne felici e serene. Persone, felici e serene. Aiuta le persone a
vivere serenamente il proprio lavoro, ad amarlo. Il resto verrà da sé.