Beh, se siete qui a leggere posso supporre che, al 90%,
sarete amanti dei libri quanto me (per il semplice fatto che non ho amici che
NON leggono, perciò è una previsione che non richiede grosse doti di
statistico). Di conseguenza, posso supporre che anche la maggior parte di voi,
alla domanda “qual è il tuo libro preferito?”, cominci a contare da 100 all’incontrario
saltando i numeri primi per racimolare un briciolo di pazienza.
Se tra i lettori c’è, per puro caso, un “ospite” che almeno
una volta nella vita è stato così ingenuo da fare questa domanda a un vero
lettore se lo lasci spiegare: non volete DAVVERO fare iniziare questa
conversazione con un vero lettore. È semplicemente impossibile che voi abbiate
abbastanza tempo di ascoltare l’eventuale risposta.
Anche le varianti della domanda non brillano: “Qual è il
libro a cui sei più affezionata?” (mi innamoro di un libro, o di un suo
personaggio, almeno quattro volte al mese), “Qual è il libro che secondo te una
persona DEVE leggere?” (una persona DEVE leggere. Punto. Poi che legga quello
che vuole, mica posso costringere qualcuno ad amare ciò che io amo), “Qual è un
libro che ha fatto la storia secondo te?” (Bah.), “C’è un libro che ti ha
cambiato la vita?” (può darsi, ma non credo che potrei identificarlo: sono la
somma delle centinaia di libri che ho letto, così come ogni essere umano è la
somma delle esperienze che ha fatto), “Quale libro mi consigli di leggere?” (i
casi sono due: o ci conosciamo relativamente bene, e allora ti ho già coperto
di titoli, o non ci conosciamo abbastanza perché io possa ipotizzare cosa
potrebbe piacerti. Non ci sono vie di mezzo: un lettore condivide appena può,
se non l’ha ancora fatto è perché non ti conosce abbastanza bene per rompere i
coglioni impunemente).
Di recente però mi è stata posta “l’odiosa domanda” con
sufficiente sforzo creativo da costringermi a premiare l’impavido.
“Immagina che un
asteroide stia per colpire la terra e che tu sia tra i prescelti che devono
riempire un caveau con i romanzi da salvare dal cataclisma. Ne puoi scegliere
quattro o cinque. Quali scegli?”
Ok. Magari definirla “creatività” è un po’ eccessivo. Ma
almeno, da non lettore, il povero piffero ha fatto lo sforzo di ricamare una pseudostoria
attorno alla solita domanda, ecco. Sarei stata davvero poco gentile a non contraccambiare
l’impegno.
Ovviamente ho proposto di riempire quel dannato caveau di
e-reader pieni di e-book, ma l’interlocutore, ridendo, ha sostenuto che “l’onda
elettromagnetica scatenata dall’impatto avrebbe distrutto i dispositivi
elettronici”. E niente, ci voleva il cartaceo.
Ho subito giocato a rialzo puntando su “almeno sei o sette romanzi”,
utilizzando edizioni super-economiche, stampate su carta da culo e poco
ingombranti. Poi, finite le trattative, ho dovuto scegliere.
I primi titoli sono stati facili.
“Le nebbie di Avalon”
(Marion Zimmer Bradley), il mio libro-coperta di linus, che mi ha accompagnata
in tutti i miei viaggi (prendendo spesso il posto di un utile paio di scarpe,
prima dell’avvento degli e-reader). Non mi allontano per più di qualche giorno
da questo libro. Ho dormito con lui sotto al cuscino nei momenti più difficili
della mia vita. L’ho letto un numero di volte tale da essere imbarazzante e la
mia copia è ormai ridotta ad un ammasso di carta informe mangiato dai cani,
eppure ha un posto d’onore nella mia libreria, senza vergogna per il proprio
aspetto.
“American Gods”
(Neil Gaiman), un libro che mi ha strappato un pezzo di anima e me l’ha
restituita cambiata.
“La gang dei sogni”
(Luca di Fulvio), un amore più recente, più adulto, ma non per questo meno
intenso. Non sopporterei che un libro del genere andasse perduto, sarebbe un
crimine contro l’umanità.
Ed eravamo a tre e già mi sentivo male.
Mi sono sentita in dovere di pensare a qualcosa che potesse
essere annoverato tra i “classici”. Ho ripensato all’infanzia, ai sogni ad
occhi aperti, all’amore romantico: scegliere “Via col vento” o “I tre
moschettieri”? Come paragonarli? E come lasciare fuori “Piccole donne” che mi
aveva cresciuta? Mi sono ripetuta la domanda e ho pensato che avrei dovuto
scegliere qualcosa che magari altri non avrebbero salvato, qualcosa che
rappresentasse di più i miei gusti e ho sparato “Emma”, non il più famoso di Jane Austin, ma il mio preferito per l’ironia
più marcata (e un protagonista maschile più figo) degli altri.
Poi… facciamo che Harry Potter lo salva qualcun altro, vero?
No, perché già quelli sono sette e non vorrei davvero essere costretta a
sceglierne uno (Anche se ho un debole per l’Ordine della Fenice, come molti).
Eravamo a quattro.
“Dio di Illusioni” (Donna Tartt). Uno sparo istintivo, che
non saprei giustificare.
E cinque.
“Il giardino segreto”.
Non ha senso un’infanzia senza leggerlo.
Sei. Mi restava un ultimo colpo. Chi scegliere?
Anne Rice? (Intervista col vampiro mi aveva stregata, a suo
tempo)
Terry Pretchett? (ma come sceglierne solo uno?)
Virginia de Winter? (un pezzo di cuore)
David Leavitt?
Niente, contro il buonsenso che mi diceva di non scegliere
due libri dello stesso autore, ho seguito il cuore e l’istinto e puntato il
dito su “L’erede di Hastur” (Marion Zimmer Bradley). Perché Darkover è la saga
che mi ha iniziata al fantasy, una saga al pari di cui ancora oggi fatico a
trovare qualcosa, una storia che si dipana su tanti secoli, con eleganza e
originalità, intensa e ricca. È una saga che forse a pochi verrebbe in mente di
salvare: la Bradley è morta da diversi anni, la storia è stata continuata da
altre autrici (con risultati passabili, ma di livello inferiore), alcuni dei
libri non vengono ristampati da parecchio e forse ci sono tanti che non sanno
nemmeno di cosa sto parlando. Ma alla luce rossa del sole di Darkover alcuni
hanno sognato come me: pietre dai bagliori azzurri, fermagli a forma di
farfalla, ciocche di capelli rossi, gioielli di rame.
A loro: S’dia shaya, vai
domyn.
A tutti gli altri: buonanotte.
PS. Alla fine del colloquio io avevo sudato sette camicie, e
l’impavido ha ammesso di non conoscere nessuno dei titoli nominati, a parte “Il
giardino segreto”. A sua difesa, si è segnato un paio di titoli sull’agenda.
Chissà.