Se qualcuno mi chiedesse di fare un bilancio del 2016
probabilmente farei una bella, sonora pernacchia. Ci sono state belle
esperienze, assolutamente, a cominciare dalla divertentissima avventura della
pubblicazione di “Mi sei capitata per caso”, ci sono stati interessanti
sviluppi sul lavoro, e soprattutto c’è stato il veder crescere i miei
nanerottoli: il primo giorno di scuola di una, le prime frasi di senso compiuto
in simil-italiano dell’altro, la meraviglia di vedere il loro potenziale
illimitato nel distruggere e nel creare: distruggere ogni certezza che prima
credevo di avere, per crearne una sola, grande, quella della nostra famiglia.
Ma, sopra, sotto e di fianco a tutto questo c’è stato un anno impegnativo sotto
tanti punti di vista, e un autunno/inverno pieno di preoccupazioni e pensieri.
Il nanerottolo più nano ha avuto dei problemini: abbiamo
dovuto fare un piccolo intervento che poi non è andato a buon fine ed è saltata
fuori una complicazione che ora dobbiamo curare e che sarà una cosa lunga. Niente
di preoccupante nel senso più grave del termine, ma sicuramente una situazione
da gestire, con cure impegnative e stressanti da ripetere tutti i giorni. Ed è
da gestire anche l’ansia quando vedi la perplessità negli occhi dei medici,
quando vedi quel “ma come, non ha funzionato? E io che mi invento adesso?”
scritto sulla loro fronte corrugata.
Ne usciremo, in qualche modo, e siamo seguiti bene. Ma
questo non toglie nulla alla stanchezza, allo stress e alla paura di provocare
delle conseguenze psicologiche o emotive in un bambino di due anni che deve
sopportare piccole torture, anche solo per dieci minuti, due volte al giorno,
tutti i giorni, da più di un mese e chissà ancora per quanto.
Se da questo periodo ho imparato qualcosa però è questo:
bisogna insistere. Bisogna rompere le palle, sempre, e telefonare e
ritelefonare, e non aver paura di disturbare un medico o una segretaria.
Purtroppo l’unico modo per essere seguiti e curati è trovare la persona giusta
che prenda il caso che ha davanti come una sfida personale ma che, al tempo
stesso, capisca che ha davanti una persona (nello specifico, un bambino
piccolo), non soltanto un caso clinico, con una sua storia, le sue paure e il
suo personale livello di sopportazione alle cure. Lo spazio per adattare una
terapia alle esigenze personali non c’è sempre, ma avere davanti qualcuno che
comprende la difficoltà di dover tener stretto un bambino in due adulti perché
un terzo abbia spazio di manovra per effettuare la cura, fare un aerosol
fastidioso, mettere gocce o spalmare creme, beh, ti rassicura e sai che non
tenterà strade inutili solo per farti far qualcosa mentre cerca di farsi venire
un’idea migliore. Medici così esistono. Cercateli, se vi trovate in una
situazione simile. Rompete le scatole al mondo finchè non vi sentite “al
sicuro”.
Quando vedi un bambino stare poco bene ti senti quasi sempre
inadeguato: vorresti soffrire tu per lui, vorresti che a lui fosse risparmiato
tutto, vorresti buttare tutto alle ortiche – mondo, lavoro, persone – se questo
servisse a farlo guarire subito, seduta stante. Purtroppo non si può: si
continua a lavorare, si arranca tra un appuntamento lavorativo e un
appuntamento con un medico, si corre in farmacia, ci si attacca al telefono
della pediatra per farsi fare le ricette, si spendono soldi. Per come sono
fatta io, a questo si aggiunge anche il continuo terrore di non essere
abbastanza: di non essere stata abbastanza sveglia da trovare prima il medico
giusto, di non essere una madre abbastanza brava da gestire l’aspetto
psicologico del dover “torturare” un bimbo che non capisce perché lo stai
torturando, di non essere una madre abbastanza onnipotente e onnipresente da
non trascurare l’altra figlia perché il piccolo ha bisogno di cure, di non
essere abbastanza ubiquitaria da essere allo stesso tempo al lavoro, a un
congresso, a prendere la figlia a scuola e a coccolare il nanerottolo dopo
l’aerosol, di non avere abbastanza energia per non addormentarsi sul divano
mentre tenti di guardare un film con il marito, di non essere abbastanza
perfetta. E va beh. Ognuno ha diritto al
proprio veleno, no?
Non ho scritto molto ultimamente. Questo mi dispiace, ma non
sono una di quelle persone che trova conforto nello scrivere: scrivo per
divertimento, per evasione, perché mi piace e mi appassiona, ma non costituisce
una terapia per i momenti brutti. Devo essere più serena di così per scrivere
con efficienza e godermi ciò che sto scrivendo. Il conforto vero resterà,
sempre e per sempre, la lettura. Questo fa di me molto più una lettrice che una
scrittrice ma va bene così, non ho mai voluto, né potuto essere altro.
Questo non significa che non ho scritto proprio niente, che non
scriverò più, che non voglio, o che non mi manca: significa solo che alla sera
o durante il giornaliero viaggio in treno, sento il mio cervello talmente
sovraccarico dalla continua organizzazione di cure, visite, esami e lavoro da
fare e senso di colpa per non aver fatto tutto abbastanza bene… che, beh, il
mio cervello chiede tregua dal mondo, chiede di andare da qualche parte in cui
può riposarsi, sentirsi leggero, sentirsi a casa. Dove? Dove si è sempre
sentito così: nei libri.
Perciò in realtà, per quanto questo sia stato un periodo
difficile, questo è un post di ringraziamento per chi in questo momento mi è
stato vicino:
…grazie a Lucrezia e Martine, che mi hanno portato alla
corte del re Sole, un luogo e un tempo che ho sempre amato, facendomi vivere le
loro splendide avventure.
…grazie a Cordelia e Cassian che mi hanno portato in una
Venezia romantica, in cui le acque della laguna profumavano un po’ di casa,
come le nebbie del Presidio.
…grazie a Caleb, maltrattato dall’autrice che vuole farsi
passare per macellaia, ma a me è riuscita solo a dare approdi sicuri in questi
pochi anni in cui l’ho conosciuta.
…grazie ad Aelin, e alla sua avventura epica che riesce
tutte le volte a farmi sognare.
…grazie a Magnus, per la cui simpatia dovrei essere troppo
cresciuta, ma non c’è data di scadenza per ciò che ci fa sentire bene.
…grazie a Kelsea, nella cui umanità, debolezze e sacrifici,
nonostante la (splendida) ambientazione irreale un po’ distopica, ho
riconosciuto il modo in cui siamo cresciute noi: libri, severità, desiderio di
essere speciali e uniche e, spesso, ignoranza del modo in cui lo eravamo
davvero.
…grazie a “the Queen”, regina di una storia a corto di nomi,
in cui Neil Gaiman mi ha fatto sognare, ancora una volta, sempre.
…grazie a Terry.
Sono solo alcuni dei tanti grazie che dovrei dire, tutti i
personaggi che mi hanno sostenuto, tutte le parole che mi hanno circondata,
proteggendomi dalle cose pesanti del mondo e dalle cose pesanti di me stessa,
grazie a tutte le pagine che ho girato in questo periodo: ognuna di esse a
spinto uno dei miei passi per farmi andare avanti.
Come ho scritto un po’ di tempo fa su facebook, una sera il
marito stava dicendo a nostra figlia che da grande non si sarebbe più lasciata
fare le coccole da lui, che gli avrebbe detto “lasciami stare, sono già
grande!”, e lei gli ha risposto “No, ti dirò, lasciami stare che sto
leggendo!”.
Ecco. Non sa leggere, ancora, ha sei anni. Ha detto quella
cosa perché vede me leggere, perché le ho detto spesso che leggere mi fa stare
bene e mi fa sognare luoghi lontani e mondi che non esistono, e lei vuole fare
come me. Non so se davvero leggerà, da grande; non so se sarà come me e vivrà
mille vite nei libri, se questo la farà diventare un’adulta migliore, se questo
la conforterà nei momenti brutti che arriveranno. Ma lo spero: è l’augurio che
le faccio per Natale, per il nuovo anno in cui imparerà a leggere, per tutta la
vita che l’attende.
Ed è un augurio che lascio a tutti: avere sempre un libro in
borsa, sul comodino, sul bracciolo del divano, sul rotolo della carta igienica
in bagno. Per i momenti belli e quelli brutti. Per leggere da soli o vicino a
qualcuno. Per sognare un futuro o riscoprire un passato. Per capire gli altri o
vivere se stessi.
Buon 2017!
Incrociamo le dita, va...
Grazie tesoro, sono felice di averti regalato almeno qualche momento di svago. Ti mando un grosso abbraccio.
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