sabato 12 marzo 2016

Una volta uno scienziato mi disse

Ho pensato parecchio a come scrivere questo post, e ci ho messo molto tempo a decidermi, primo perché lo trovo importante e, come è ovvio, volevo scriverlo bene, secondo perché mi sono resa conto che sarebbe stato molto facile cadere negli stessi errori che il post si propone di combattere: la disinformazione, l’allarmismo, la cattiva divulgazione. 
Cercherò perciò di essere il più generica possibile per non creare fenomeni di allarmismo su un aspetto in particolare e, soprattutto, cercherò di fare al meglio il mio mestiere: lo scienziato. E cercherò di usare la mia preparazione per aiutarvi un po' a capire quando qualcuno sta facendo cattiva divulgazione scientifica, cercherò di dare a chi non ha una preparazione scientifica come la mia qualche indizio, qualche campanello d’allarme che si metta a suonare quando un post letto su internet o un articolo letto su un giornale è un esempio di disinformazione dannosa.

Partiamo dalle basi. Cos’è l’informazione scientifica? È l’informazione che passa da uno scienziato (un ricercatore, un dottorando, un professore) al resto del mondo. Poiché lo scienziato, spesso, non è un divulgatore, il passaggio dal ricercatore al mondo  non avviene in un passaggio solo.
Prima, lo scienziato comunica i suoi risultati alla comunità scientifica attraverso la pubblicazione su riviste scientifiche, scritte in inglese e consultabili (non sempre gratuitamente se non si fa parte del mondo accademico) on line. È un processo tutt’altro che immediato: l’articolo, per essere pubblicato su una rivista scientifica, deve superare “l’esame” di altri scienziati (si chiamano reviewers o peers) che prima di approvare la pubblicazione possono chiedere chiarimenti sulle metodologie, richiedere esperimenti di controllo, dati supplementari, confutare le analisi eseguite, confutare i risultati stessi se ritengono che gli esperimenti non siano stati condotti nel modo corretto, o confutare il modo in cui i risultati sono discussi e le conclusioni tratte dagli autori. La pubblicazione può richiedere anche due o tre revisioni progressive dell’articolo scientifico, e spesso gli articoli vengono poi rifiutati dalla rivista (gli editor della quale sono comunque scienziati) se i reviewers (anche loro scienziati) non si dichiarano soddisfatti di come l’autore ha risposto alle loro critiche. La pubblicazione scientifica è un passaggio di informazioni tra SCIENZIATI, tra addetti ai lavori, per così dire. L’articolo scientifico non è fatto per essere compreso da tutti, e non perché i “non scienziati” non siano abbastanza intelligenti per capirlo, ma perché è scritto in una maniera tale da richiedere una preparazione adeguata, spesso specifica, per essere compreso. Un biologo non comprenderà facilmente un articolo di fisica quantistica o di sociologia, e viceversa.
Da chi viene letto l’articolo quindi? Da altri scienziati, in primis. Scienziati che lavorano in accademia e che fanno i ricercatori a loro volta, ma anche clinici e personale dell’area medica che poi potranno utilizzare i risultati di quell’articolo, magari, per ideare terapie sperimentali innovative, o scienziati impiegati nel settore ricerca e sviluppo di industrie farmaceutiche, che magari sfrutteranno quei risultati per progettare nuovi farmaci… questi sono solo esempi. Tra chi legge gli articoli scientifici possono esserci anche persone che si occupano di DIVULGAZIONE, cioè che (per lavoro o per passione) si occupano di tradurre alcune di quelle informazioni tecniche e scientifiche in un linguaggio più comprensibile anche a chi non ha una preparazione, appunto, tecnico-scientifica. Perciò, per arrivare al privato cittadino non-scienziato l’informazione fa due salti: dallo scienziato al divulgatore, dal divulgatore al resto del mondo.

E qui sorge il primo problema. Il divulgatore può anche non essere uno scienziato: può essere un giornalista, può essere un blogger, può essere il responsabile marketing di un’azienda che pensa di poter profittare (direttamente o indirettamente) dei risultati di quelle scoperte, può essere un appassionato che scrive un post su facebook o un tweet. In casi fortunati questa persona può essere laureata in discipline scientifiche, ma potrebbe anche non esserlo. Per citare un estremo, la figura di “divulgatore” potrebbe anche essere ricoperta da uno che ha sentito l’amico/fratello/cugino che fa il ricercatore parlare di risultati suoi o di altri, ha capito l’otto per il diciotto e poi vi viene a riferire una notizia completamente falsa spacciandovela per scientificamente provata perché “l’ha detto il mio coinquilino che lavora all’Imperial College di Londra”. 
Qui arriva perciò il primo consiglio: chiedetevi chi è la figura del divulgatore e/o quanti sono i divulgatori coinvolti: quanti “salti” ha fatto l’informazione prima di arrivare a voi? Avete modo di saperlo? Chi sono le persone che hanno fatto rimbalzare la notizia? Quante possibilità ci sono che abbiano letto e capito la fonte originale dell’informazione? Magari non avrete modo di rispondere a nessuna di queste domande, ma già farsi venire il dubbio predispone ad un atteggiamento critico nei confronti dell’informazione stessa.

La divulgazione “ufficiale” viene fatta di solito tramite riviste di largo consumo, apposite o meno, affidabili o meno. Ma ad oggi la fonte primaria di divulgazione è sempre internet. Cosa troviamo su internet? Risposta: di tutto. Dai siti/blog di divulgazione scientifica fatti bene alle idiozie più colossali. Fare divulgazione scientifica oggi è facilissimo, soprattutto se i risultati hanno qualche collegamento con i problemi più attuali: esce un articolo scientifico focalizzato sullo studio delle conseguenze dei vaccini? Qualunque sia il risultato mostrato nell'articolo, mille blog scriveranno post su di esso, alcuni facendo un lavoro fedele di divulgazione dei risultati (semplicemente traducendo in linguaggio più colloquiale ciò che è scritto con terminologia troppo tecnica), altri travisando completamente il messaggio. Viene pubblicato un articolo che identifica nella cacca di gallo cedrone siberiano una molecola coinvolta nell’inibizione dei meccanismi metabolici che portano all’obesità (l’esempio è appositamente idiota per non essere scambiato per vero)? Immediatamente duemila blog scriveranno che spalmarsi la pancia di cacca di gallo cedrone siberiano fa dimagrire.
È su questo che volevo concentrarmi in questo post: come si fa a riconoscere chi fa divulgazione scientifica seriamente e chi invece (coscientemente o meno) fa disinformazione? Non è facile, ma ho intenzione di darvi qualche indizio. Ricordatevi però che sono solo questo: indizi, non certezze matematiche. Non è impossibile trovare post divulgativi ben fatti, quasi insospettabili, eppure responsabili di colossali truffe. La cosa davvero triste è che tutto ciò potrebbe essere fatto di proposito, con il preciso (e criminale) intento di creare allarmismo e paura, o di spingere le persone a spendere soldi e tempo in qualcosa, come terapie fai da te, rimedi omeopatici, visite da sedicenti specialisti, e chi più ne ha più ne metta, creando anche situazioni di pericolo per la salute delle persone.

Il primo indizio arriva proprio all'inizio: il titolo. Diffidate di titoli troppo sensazionalistici. Cosa intendo per sensazionalistici? Quelli che identificano troppo chiaramente una relazione causa-effetto, ad esempio. Quelli che non utilizzano nessuna cautela nel definire i benefici di un farmaco o di un alimento, o nel definirne eventuali effetti negativi. Diffidate dell’indicativo presente, in sostanza. Prendete questo esempio: nell’articolo scientifico originale gli autori traggono la conclusione che “la molecola ABC (contenuta in piccole quantità nell’alimento HJK) è coinvolta nella patogenesi della malattia XYZ”, in un post di divulgazione il titolo potrebbe essere “HJK causa XYZ!”. Il post non ha tecnicamente detto una falsità ma, mentre l’effetto del messaggio scientifico originale dovrebbe essere quello di usare moderazione e buonsenso nell’assumere l’alimento HJK, l’effetto del titolo del post divulgativo sarà quello di spingere le persone più impressionabili a bandire dalla propria tavola l’alimento HJK. Magari eliminare un alimento dalla propria dieta non è un gran problema, ma provate a pensare di ripetere lo stesso processo per tre o quattro molecole diverse e già la dieta finale della persona “impressionabile” potrebbe avere qualche conseguenza. Ancora più pericoloso potrebbe essere il processo inverso: “la molecola ABC (contenuta in piccole quantità nelle radici della pianta DFG) ha attività antitumorale” diventa “DFG cura il cancro!”. Che succede se poi persone malate si mettono in testa di curarsi solo con infusi di radici di DFG? E che succede se le radici di DFG, oltre alla molecola ABC, contengono anche molecole tossiche? Siamo solo al titolo (e a giudicare dagli inquietanti dati di analfabetismo funzionale, il titolo potrebbe essere l’unica cosa che alcune persone leggono) e già stiamo creando un mare di problemi. E tenete presente che già il messaggio originale conteneva un’affermazione all’indicativo presente che, vi assicuro, nel mondo scientifico è una rarità: i reviewers tendono a chiedere agli autori di mitigare le proprie conclusioni, usando ad esempio “potrebbe essere coinvolta” invece di “è coinvolta”, a meno che i dati non siano assolutamente inconfutabili e verificati su un numero di soggetti esorbitante.

Secondo indizio: osservate il linguaggio utilizzato, già nelle prime frasi del post. Il primo campanello d'allarme è la correttezza sintattica e grammaticale: ho notato che spesso chi scrive idiozie le scrive pure male. Il secondo campanello è, di nuovo, il linguaggio sensazionalistico: troppa certezza, troppo clamore nello sbandierare i risultati, troppa fiducia in ciò che i dati lasciano intendere non si addicono alla scienza. Scienza è mettersi in dubbio, è essere affascianti da ciò che si scopre senza sovrastimare le sue potenzialità, è fare un passo alla volta nella direzione della “verità” assicurandosi di non comunicare falsità, è mostrare i frutti del proprio lavoro con orgoglio senza cadere nella tentazione di attribuire loro significati che non hanno (ancora). Se il post vi comunica qualcosa di diverso, fatevi venire il dubbio. Non dico che debba per forza essere falso: per fare un esempio, i risultati finali positivi della sperimentazione finale di una nuova cura contro un tipo di tumore finora poco trattabile SONO un risultato eccezionale e saranno, anche in ambito scientifico, presentati come tali; ma quanti post o articoli riguardano davvero la “scoperta” di cure contro mali incurabili? Pochi. Terzo campanello: eccessiva generalizzazione: diffidate di chi scrive “cancro” senza specificare di quale tipo di tumore sta parlando, di chi scrive diabete senza specificare se di tipo I o II, di chi parla di problemi alla tiroide senza chiarire ulteriormente a quale delle decine di disordini tiroidei che esistono si sta riferendo, di chi usa frasi come “aiutare il metabolismo” (aiutare in che senso? Quale metabolismo?) o “bruciare grassi” (nel caminetto?), di chi utilizza il prefisso “bio”, che va tanto di moda, davanti a parole a caso ottenendo una stupefacente assenza di significato (mi è capitato di leggere “biobatteri intestinali”: che diavolo sono i bio-batteri?!)… potrei andare avanti ad oltranza e faremmo Natale. Il sunto è: fidatevi di più di chi identifica una patologia specifica, di chi usa un linguaggio corretto anche se non tecnico, di chi trasmette fiducia nella scienza senza clamore e di chi manifesta, sempre sulla scienza, legittimi dubbi senza per questo demonizzare tutto il mondo della ricerca. E di chi evita di inventarsi termini assurdi.

Cercate un link all’articolo scientifico originale, alla fonte. Non c’è? Diffidate. C’è? Apritelo. Spesso potrete leggere soltanto titolo, autori e abstract, se non vi collegate utilizzando un server accademico, però anche senza una conoscenza specifica dell’argomento (e anche senza una conoscenza approfondita dell’inglese, oserei dire) riuscirete, se non altro, a confrontare il titolo dell’articolo e il titolo del post: sembrano coerenti o il titolo del post è esagerato? O, addirittura, il titolo del post travisa completamente il titolo dell’articolo? Già questo confronto potrà darvi ulteriori indizi. Ma, da scienziata, vorrei cercare di darvi qualche strumento in più perciò ora fate attenzione: così come esistono pessimi esempi di esseri umani, esistono anche PESSIMI SCIENZIATI. Di conseguenza, esiste la CATTIVA SCIENZA. Purtroppo viviamo in un mondo imperfetto e anche la cattiva scienza può avere il suo spazio nelle pubblicazioni scientifiche, sia su riviste mediocri che, più raramente, su ottime riviste (se in qualche modo lo scienziato ha influenza sull’editor; so che è brutto  da dire, da parte di una persona che incita ad avere fiducia nella scienza, ma la scienza è fatta da scienziati che hanno tutti i difetti di ciò che sono: umani).
Cosa intendo per buone o cattive riviste?  
Le riviste scientifiche sono tantissime: possono essere generiche (broad audience, le chiamiamo, intendendo le riviste che pubblicano articoli interessanti per ogni “tipo” di scienziato, come Nature o Science) o settoriali, possono avere un grandissimo seguito o essere lette e citate solo da scienziati impegnati in quel particolare settore. Per distinguere le riviste migliori la comunità scientifica si è inventata diverse “metriche”, la più comune delle quali è l’IMPACT FACTOR, un indice che tiene conto di quanto gli articoli usciti su quella rivista vengono citati da altri articoli scientifici: in teoria, più un articolo è interessante e affidabile più viene citato in altri lavori, perciò più una rivista fa uscire articoli di buon livello più il suo impact factor sale. Non solo: più una rivista ha alto impact factor più avrà interesse nel mantenere il prestigio, perciò più sarà severa e selettiva nella scelta degli articoli da pubblicare, arruolando esperti di alto livello per revisionare gli articoli che le vengono proposti dagli scienziati di tutto il mondo. In questo modo la qualità delle ricerche pubblicate su quella rivista dovrebbe farsi progressivamente più alta, permettendole di essere sempre più citata. È una sorta di circolo vizioso, ovviamente soggetto ad errore umano e a eventuali simpatie o antipatie di editor e reviewers, ma IN TEORIA dovrebbe rendere la qualità degli articoli scientifici pubblicati su quella rivista direttamente proporzionale all’impact factor della rivista stessa. È un sistema imperfetto ma è il migliore che abbiamo, per ora. 
Perciò la domanda che dovete farvi è: su quale rivista è pubblicato l’articolo scientifico sul quale si basa il post che ho letto? A questo link potrete trovare gli impact factor di tutte le riviste scientifiche. Per farla breve, ci sono riviste ad impact factor altissimo, su cui è difficilissimo pubblicare (sono riviste broad audience come Nature, che se non ricordo male dovrebbe essere in testa alla classifica con un impact factor attorno a 42, o Science, Cell, Lancet, tutte le riviste della collana Nature e Nature Reviews che hanno  un impact factor maggiore di 30. Poi ci sono altre riviste, comunque molto prestigiose ma un po’ più settoriali, specialmente dell’area medica, con degli impact factor intermedi (per intenderci, riviste settoriali avranno impact factor ovviamente inferiori a quelle più generali, perché articoli settoriali saranno citati appunto all’interno dello stesso settore). Poi ci sono le riviste a basso impact factor, anche inferiori a 2 o 1. Ora, supponiamo di essere uno scienziato che ha in mano dei brutti risultati, e magari ha anche una buona dose di presunzione che non gli permette di apprezzare quanto il suo studio sia limitato o lacunoso: tenteremo di pubblicare su una rivista ad alto impact factor, che ci rifiuterà la pubblicazione (magari direttamente, senza nemmeno farlo passare dai reviewers), allora ripiegheremo su riviste di impact factor via via inferiori, fino a che non troveremo un editor distratto o poco serio e reviewers compiacenti, situazione che, verosimilmente, si verificherà su riviste a impact factor davvero basso. Ecco, questo è il meccanismo. È chiaro che uno scienziato potrà anche essere poco fortunato, incontrare reviewers poco onesti o editor prevenuti. Però, in generale, questo sistema tenta di garantire che su riviste molto lette e molto citate (quindi con alto impact factor) si pubblichino articoli di ottima qualità.
Mi sono dilungata, ma spero di essere stata chiara.

Voglio lasciarvi un ultimo consiglio: fate attenzione a come i post divulgativi che usano la parola CORRELAZIONE. È una parola pericolosissima, in bocca alle persone sbagliate. Statisticamente, correlazione tra due eventi significa che il verificarsi di un evento avviene contestualmente al verificarsi dell’altro, se la correlazione è positiva, oppure che il verificarsi di uno tende ad escludere il verificarsi dell’altro (correlazione negativa). NON SIGNIFICA CHE UNO DEI DUE EVENTI CAUSA L’ALTRO (o l’assenza dell’altro). Uno dei cavalli di battaglia della cattiva informazione scientifica è proprio questo: suggerire relazioni causali tra due eventi che, nell’articolo originale, sono stati riportati come correlati. La correlazione è pura osservazione degli eventi. Trovare una correlazione può essere un indizio di causalità, ma può anche non esserlo. Per sostenere una tesi di causalità devono essere presentate ben altre evidenze (esperimenti in vitro, prove su modello animale), non basta osservare che le due cose accadono insieme.
La correlazione è pericolosa e ingannevole anche per un altro motivo: una persona poco onesta e con un po’ di manualità nell’ottenere grafici riuscirà a farvi credere che determinati eventi sono correlati anche se non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. Mostrata una presunta correlazione (e una figura è più potente di mille parole), basterà suggerire velatamente che uno degli eventi possa essere causato dall’altro per impressionare e allarmare persone con meno spirito critico. Potrete trovare qui una trattazione molto bella di questo problema, ma cercherò di spiegarmi meglio con un esempio. Prendiamo un evento che abbia avuti un andamento crescente dagli anni cinquanta ad oggi: il numero di diagnosi di autismo nei bambini, ad esempio (uno a caso, eh). Quale sia la causa di questo andamento crescente non ci è dato sapere con certezza, ma so che gran parte della comunità scientifica fa notare come in realtà le scienze comportamentali abbiano subito una grande espansione negli ultimi decenni, identificando sempre più forme di sindromi autistiche e sviluppando metodi di diagnosi sempre più precisi e precoci: ergo, l’incremento non sarebbe tanto nella casistica quanto nel riconoscimento delle situazioni. Questo non è rilevante, comunque. Ora, prendiamo un qualunque altro evento che abbia subito un incremento dagli anni cinquanta ad oggi: ce ne sono a bizzeffe, a partire dall’utilizzo di fitofarmaci e fertilizzanti in agricoltura, inquinamento dell’aria, numero di televisioni nelle case, donne che lavorano fuori casa, alfabetizzazione e, perché no, numero di bambini vaccinati. Un buon grafico con qualche conoscenza di statistica riuscirà a farvi vedere una correlazione tra uno qualsiasi di questi eventi e l’incremento delle diagnosi di autismo. È facilissimo, basta giocare un po’ con la scala di rappresentazione dei due eventi. Potrei farvi vedere che l’incremento delle diagnosi di autismo è correlato all’incremento nel numero di nidi di piccione sotto le tegole delle case, se volessi; non significa che i due eventi abbiano davvero qualcosa a che fare l’uno con l’altro. Prima di essere squartata da eventuali antivaccinisti in ascolto: è vero, non posso escludere a priori che i vaccini abbiano avuto un ruolo nell’eventuale incremento nella casistica, per carità. Anzi: essendo uno scienziato e, pertanto, intrinsecamente portata a seguire indizi e farmi domande, mi chiedo se i due eventi siano davvero legati e se uno può essere la causa dell’altro. È questo che fanno gli scienziati. È questo che la comunità scientifica sta facendo da anni: si è fatta delle domande e ha disegnato studi sempre più ampi e sempre più mirati a valutare il legame tra autismo e vaccini e no, finora non è stata dimostrata nessuna correlazione reale o relazione causale tra i due eventi.


Detto questo ci tengo a precisare una cosa: non sono un medico, non sono un’impiegata in una ditta farmaceutica, non ricevo nessun tipo di incentivo per dire quello che ho detto. Sono una microbiologa, lavoro in università e studio gli ecosistemi batterici complessi, soprattutto quelli legati al corpo umano come il microbiota intestinale e il suo rapporto con la salute umana. Ma prima di tutto e soprattutto, sono una che ama la ricerca e tutto ciò che questo rappresenta: il continuo mettersi in dubbio, il continuo studiare ciò che altri hanno scoperto, la possibilità di togliere quel mattoncino in più dal muro dell’ignoranza.  E la cattiva informazione è peggio dell’ignoranza.

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